1972
Pescara, Bussi, L'Aquila

Il mio viaggio per ripercorrere le tappe del tour di Berlinguer in Abruzzo inizia da Pescara.

È qui, infatti, che si tiene il suo primo comizio nelle vesti di capolista del partito per la regione, per la precisione in Piazza Salotto.

In seguito, di lì a poche ore, Berlinguer avrà modo di andare anche a Bussi (in provincia di Pescara) e a L'Aquila

Ma ci arriveremo tra poco. Torniamo a Pescara.

Siamo nel 1972. Nel maggio di quell'anno sono previste le elezioni amministrative anticipate - le prime nella storia repubblicana - a causa della caduta del governo Colombo.

Alla pubblicazione delle liste dei candidati, per i comunisti abruzzesi non c’è sorpresa nel leggere chi sarebbe stato il loro capolista: il quindicinale “Abruzzo d’oggi” infatti aveva già anticipato il nome di Enrico Berlinguer, da pochi giorni eletto Segretario Nazionale del Partito Comunista.

L’entusiasmo, dunque, è altissimo.

Il primo comizio - dicevamo - si tiene a Pescara, l’8 aprile del 1972. Ed è proprio qui in città che incontro il primo dei tanti testimoni che lo hanno conosciuto. 



Davanti alla sede della Fondazione Abruzzo Riforme (negli stessi locali dove prima c'era la sezione provinciale del PCI), in via Lungaterno Sud, ho appuntamento con Gianni Masciovecchio, che ha fatto parte della scorta di Berlinguer durante i suoi tour elettorali in regione.

Masciovecchio, classe 1946, mi accoglie sorridente e mi invita ad entrare nelle stanze della Fondazione. Mi racconta un po’ di sé e delle sue giornate da pensionato, dopo 35 anni di servizio presso L’Enel. Ma subito inizia a parlarmi della sua militanza nel PCI, al quale si iscrive nel 1966, a soli vent’anni, e dove in seguito ricoprirà diversi ruoli: da semplice militante diventa presto un membro del comitato federale (carica che ricoprirà per ben cinque anni), dove avrà la responsabilità di essere uno dei “costruttori del partito” come si diceva al tempo, occupandosi specialmente delle questioni inerenti alla Val Pescara.

Infine, l’incontro con Berlinguer.

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Masciovecchio diventa così l’ombra di Enrico Berlinguer. Lo segue ovunque, specie sui diversi palchi. Non a caso, compare spesso in molte foto, alle spalle del Segretario.

Questo eccesso di precauzione non deve affatto sorprendere: quelli sono gli anni difficili, il periodo delle stragi e della cosiddetta strategia della tensione, ma anche dei tentativi di colpi di stato.

Giorgio continua a ricordare di quella giornata e del comizio a Piazza della Rinascita, che tutti chiamano Piazza Salotto e che è un po' il cuore della città. Racconta della folla, degli applausi e delle bandiere, e si capisce che il suo antico ardore da militante non si è del tutto sopito: nelle sue parole echeggia ancora oggi una certa emozione.

Il comizio viene aperto da Sandirocco che sottolinea il valore della figura di Berlinguer.

In seguito, prende la parola Berlinguer stesso.

La folla lo accoglie con un lungo applauso e, tra le tante bandiere che oscillano, il Segretario:

entra subito nel vivo della polemica con la DC, sfidando i dirigenti di quel partito ad assumere precisi impegni davanti all'elettorato su sette punti fondamentali per la vita del Paese [...] Berlinguer ricorda poi gli slogans elettorali della DC: stabilità politica e ordinato progresso. "Ebbene - dice il Segretario comunista - l'esempio dell'Abruzzo dimostra esattamente il contrario. [...] Durante il pluridecennale dominio della DC che tutti i problemi dell'Abruzzo si sono ulteriormente e drammaticamente aggravati. È da questa concreta realtà che emerge la necessità di mettere fine al monopolio politico della DC, di aprire anche in Abruzzo nuove vie allo sviluppo democratico".
F. di Vincenzo, "I comizi e il miele"

Il comizio è un successo enorme.

La piazza è gremita, la gente esulta e si avvicina a Berlinguer per salutarlo o stringergli la mano. I compagni della sezione di Pescara devono quasi fare da scudo al Segretario. Ma lui li tranquillizza e, anzi, invita gli uomini della scorta a scansarsi, così da avere modo di incontrare i militanti e i cittadini.

Sapevo bene già da allora quanto fosse falso il cliché di un Berlinguer freddo, triste, scostante o addirittura distaccato dalla gente. Era l'esatto contrario: dolce, gentile, sensibile, umanissimo
Antonio Tatò da "I comizi e il miele" di F. di Vincenzo

È in questo clima di entusiasmo generale che un uomo del partito, Camillo Scipione - sindaco di Bussi sul Tirino - avanza una proposta. Direttamente a Berlinguer.

La piccola carovana di macchine che accompagna la Fiat 2 sulla quale viaggia Berlinguer lascia la Tiburtina e imbocca il bivio per L'Aquila poco prima delle 16
F. di Vincenzo, "I comizi e il miele"
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Il fuori programma conduce così Berlinguer a Bussi sul Tirino, piccolo paese in provincia di Pescara, poco più di mille abitanti.

Ma Bussi è soprattutto un noto centro industriale, importante in quegli anni.

Lì sorge lo stabilimento della Montedison, che dà lavoro ad un numero consistente di operai della Val Pescara.

Ed è proprio a quegli operai che Berlinguer si rivolge nel suo comizio improvvisato, augurandosi che il nuovo governo sarà formato da forze sane e democratiche, l'unico modo per far uscire il Paese dalla crisi in cui versava allora.

Il boato di approvazione, a quelle parole, è assordante.

Berlinguer è contento.

Il 7 maggio successivo, alle elezioni amministrative, il PCI a Bussi supererà il 50% dei voti e il segretario invierà un affettuoso biglietto di complimenti per il risultato, ricordando il suo passaggio imprevisto.

Al termine di quella giornata, si torna al programma originario: il giorno successivo, e cioè il 9 aprile, è previsto un comizio a L'Aquila in piazza Duomo.

Ricordiamolo: è il 1972. Appena un anno prima, nel febbraio del 1971, il capoluogo abruzzese si era reso - suo malgrado - protagonista di un episodio grave e violento, che aveva messo sottosopra l'intera città. Così lo aveva raccontato il cinegiornale 7 giorni.

L'episodio, una vera e propria sommossa popolare, viene ricordato come i "moti dell'Aquila" e ancora fa discutere.

Quella dei moti aquilani è una storia complicata, che è difficile riassumere in poche parole.

E' legata alla scelta del capoluogo regionale, che non viene stabilito per legge a differenza di altre regioni, e interseca sentimenti di appartenenza e di orgoglio cittadino ad una latente sfiducia nei confronti dei partiti. Come ha scritto lo storico Guido Crainz, infatti, la vicenda aquilana è uno dei segnali di un'incipiente sentimento antipolitico che si manifesta sin dalla "stagione dei movimenti", quando la partecipazione politica raggiunge uno dei suoi punti più alti.

(se volete approfondire, in rete trovate questo saggio di Crainz, pubblicato nel 2000 sulla rivista "Meridiana")

Ma, al di là delle interpretazioni storiografiche, quello che accade è che dapprima a Pescara e poi a L'Aquila, molte persone scendono in piazza per rivendicare il titolo di capoluogo regionale alla propria città e poi, scontenti del compromesso trovato dai partiti, ne devastano le sedi.

In questa situazione, il PCI paga un prezzo salatissimo, come hanno scritto Andrea Sangiovanni e Piero Nicola Di Girolamo

Tra il 1970 e il 1971 tornava alla ribalta la questione del capoluogo, un problema di antica data che riesplodeva periodicamente sia a Pescara che a L’Aquila, anche con manifestazioni violente[1]: la vicenda era legata all’individuazione del capoluogo di regione che, unico insieme a quello della Calabria, non era stato indicato nella legge del 1953 che regolava gli organi regionali ed era poi riemersa con la costituzione delle regioni nel 1970. In effetti, le tensioni intorno alla questione del capoluogo avevano punteggiato tutti gli anni Cinquanta e Sessanta[2] per poi sfociare a Pescara, nel giugno del 1970, in veri e propri scontri di piazza, con blocchi stradali e ferroviari, incendi e devastazioni e finanche – come scriveva “Il Giorno” – con «reminiscenze dannunziane di chi ha pilotato (...) un piccolo aereo da turismo sul cielo dell’Aquila inondando la città dei motti del vate immaginifico: “Boia chi molla!” o “Alla battaglia futura”»[3]. Si trattava delle cosiddette «notti dei fuochi»[4], che erano iniziate dopo la nomina del Prefetto dell’Aquila a Commissario di Governo, interpretata come un’anticipazione sulla futura scelta del capoluogo, e che la polizia aveva fronteggiato con il rinforzo di reparti da Senigallia. Le cronache de “L’Unità”, pur preoccupate, le avevano derubricate a semplici «agitazioni campanilistiche» orchestrate dalla Democrazia Cristiana, sottovalutando la capacità di mobilitazione popolare che esse avevano messo in mostra[5]. Al contrario Franco Roccella, sulle pagine del “Giorno”, si era chiesto se i «giovani della periferia (...) politicamente indifferenti» che avevano partecipato alle manifestazioni fossero «davvero tanto lontani dalla passione che ha mobilitato i pescaresi dietro l’idolo dei capoluogo»: «si e no. – si era risposto – La verità è che essi hanno recepito confusamente, come potevano, questa sollecitazione della cittadinanza, motivata in parte da argomentazioni serie e da serie scelte politico-economiche (...), in parte dovuta a (...) spirito di campanile. (...) E subito dopo sono stati presi da un altro risentimento contro le forze di polizia, (...) contro lo Stato ostile»[6]. Di lì a poco, peraltro, anche in Calabria sarebbero scoppiati dei moti per il capoluogo, di durata e intensità molto diverse rispetto a quelli pescaresi[7], che però non potevano non avere alcuna influenza sul dibattito abruzzese[8].

In effetti, nonostante i «fuochi» di Pescara si fossero spenti in pochi giorni, la brace avrebbe continuato ad ardere sotto la cenere, non solo nell’ampio dibattito giornalistico, ma anche nella vivace attività dei comitati cittadini di Pescara e de L’Aquila. Quest’ultimo, in particolare, si rivelava capace di bloccare la città con uno sciopero generale a fine gennaio, replicandolo poi nell’imminenza delle decisioni del Consiglio Regionale[9]. I tumulti esplodevano infine il 26 febbraio, giorno in cui doveva essere votato lo Statuto regionale e decisa la questione del capoluogo: infatti, la soluzione di compromesso che era stata raggiunta in quell’occasione – assegnazione del titolo di capoluogo a L’Aquila, divisione degli assessorati fra Pescara (7) e L’Aquila (3) e riunioni alternate fra le due città di Consiglio e Giunta – veniva contestata dalla popolazione con manifestazioni che si sarebbero presto trasformate in una vera e propria insurrezione popolare che invadeva e devastava le sedi dei partiti, spingendosi fino ad attaccare le abitazioni private di politici cittadini. Per il PCI abruzzese, in particolare, questa vicenda costituì un vero e proprio trauma: infatti, la sede comunista fu l’unica ad essere assalita mentre era presidiata dai militanti, i quali, dopo alcune ore di assedio, furono costretti ad abbandonarla e a lasciare che la folla ne devastasse i locali. E tuttavia, la forte identificazione dei militanti con il partito non è l’unica ragione della centralità di questo episodio nella vicenda del Pci abruzzese.

Occorre infatti ampliare lo sguardo in due direzioni. La prima riguarda il ruolo di arbitro che il Pci aveva provato a giocare rispetto al tipico dualismo politico della DC abruzzese, che rinfocolava un tenace campanilismo promuovendo lo sviluppo locale al posto dell’interesse generale e regionale: questo spostava sui comunisti il peso della scelta, come sottolinea con insistenza nelle sue memorie l’allora segretario regionale Petruccioli[10], la quale non poteva che essere di compromesso avendo come obiettivo l’interesse generale e visto che il Pci abruzzese guidava «lo schieramento regionalista ed anti-campanilista»[11]. E tuttavia questa posizione non aveva retto alla prova di un tema così rilevante come quello del capoluogo: infatti, nelle memorie di alcuni militanti emerge con chiarezza che le diverse federazioni del Pci erano attraversate da spinte e passioni localiste. Nevio Felicetti, per esempio, ha scritto che «come comunisti pescaresi eravamo schierati a favore di Pescara. Palesemente, come del resto per la loro città i compagni aquilani»[12]. E, del resto, proprio a L’Aquila fra i manifestanti che avevano assediato la sede del Pci c’era più di un iscritto al partito[13].

Questo elemento permette di comprendere come la vicenda del capoluogo debba essere inserita in un contesto più ampio e in un processo più lungo di crisi del modello dei partiti politici di massa e della loro capacità di guidare le mobilitazioni popolari che si sarebbe manifestato compiutamente solo molti anni più tardi: insomma, nella rivolta aquilana – che anche in questo senso sembrerebbe riecheggiare quella, contemporanea ma molto più grave, di Reggio Calabria – si annidavano, per un verso, i germi di una protesta antipolitica e antipartitica che, inabissatasi negli anni immediatamente successivi, sarebbe poi riemersa alla fine del decennio, ma anche, per un altro verso, si potevano cogliere i segnali della crescente incapacità della politica stessa di guidare la richiesta di cambiamento e del rinchiudersi su sé stessa.

Il secondo aspetto che i “moti dell’Aquila” mettono in evidenza riguarda le difficoltà del partito in Abruzzo: un partito che appariva debole perché, come veniva sottolineato nel dibattito successivo agli eventi, gli aquilani avevano abbandonato la sede del partito e si erano limitati ad attuare una difesa di «carattere (...) passivo, tendente cioè solo ad impedire agli assalitori di entrare nella sede»[14]. Al di là di questo aspetto, tuttavia, ciò che la discussione mise in luce fu innanzitutto «una progressiva caduta della combattività del partito di cui si sono venute attenuando e in alcuni casi sono del tutto scomparse le caratteristiche di partito di lotta e di massa»: così diceva Luigi Sandirocco in una riunione del Comitato Direttivo della Federazione di Pescara, riecheggiando sia il giudizio della Federazione di Avezzano, sia quello del PCI nazionale che, per certi versi, era ancora più duro. Paolo Bufalini, infatti, sottolineava come «la reazione dell’Abruzzo ai fatti dell’Aquila» fosse stata «assolutamente inadeguata». E continuava: «ci dovevano essere subito dopo forti manifestazioni che sono del tutto mancate. Inoltre, c’è stato il permanere di tutta una serie di posizioni che hanno rivelato una debolezza di orientamento più profonda di quanto ci aspettassimo»[15]. Benché queste osservazioni rispecchiassero la preoccupazione per una caduta della tensione democratica che emergeva anche nel dibattito nella direzione del Pci[16], oggi appaiono forse un po’ ingenerose perché non tenevano in conto ciò che stava avvenendo allora nel sud dell’Abruzzo, eventi che ci ricordano come in questa stagione ci fosse una domanda di cambiamento e di modernizzazione che poteva essere raccolta e messa a frutto.

[1] Una buona anche se sintetica ricostruzione è quella di Fabrizio Loreto, Dalla contestazione studentesca e operaia del “Sessantotto” ai “fatti per l’Aquila capoluogo” (1971) in Andrea Borghesi e Fabrizio Loreto (a cura di), Cento anni di CGIL all’Aquila e provincia 1907-2007, Ediesse, Roma 2010, in particolare pp. 221 e ss. Utile è anche Vincenzo De Fanis, Abruzzo/Abruzzi. Sviluppo e conflitti in una regione plurale, in “Zapruder” n. 41, settembre-dicembre 2016. Fra le ricostruzioni dei protagonisti, va ricordato almeno C. Petruccioli, L’Aquila 1971. Anatomia di una sommossa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. L’importanza di questi eventi nel contesto regionale è sottolineata dalla rievocazione giornalistica che è stata fatta sulle pagine del “Centro”, il quotidiano abruzzese, in occasione del cinquantenario, che hanno riproposto una lettura in chiave localistica e identitaria

[2] Fabrizio Loreto ricorda che degli incidenti già nel 1949 c’erano stati «incidenti a L’Aquila, con manifestazioni pubbliche, blocchi stradali e violenze, proprio nel momento in cui la Camera dei Deputati in sede di formulazione del progetto di legge sulla costituzione dei Consigli regionali, pone il dilemma L’Aquila/Pescara per il capoluogo» e altri momenti di tensione c’erano stati nel 1964: cfr. F. Loreto, Dalla contestazione studentesca e operaia..., cit., p. 222

[3] F. Roccella, Folla in tumulti e scontri per Pescara capitale, “Il Giorno”, 26 giugno 1970

[4] Il cronista del Giorno registrava la situazione «paradossale» di una città che «di giorno (...) vive senza riserve la sua vita balneare» e di notte è sconvolta da «l’ora della “guerriglia”, delle barricate, dei falò, delle fionde, dei gas lacrimogeni, dei rastrellamenti»: in Idem. Si veda anche l’«interrogazione urgente sui fatti di Pescara» in Camera dei deputati, V legislatura, resoconto stenografico, seduta di venerdì 26 giugno 1970, pp. 18695 e ss.

[5] Si vedano ad esempio le cronache di W. Montanari, Tumulti a Pescara orchestrati dai notabili dc, Ancora assurde violenze a Pescara per la designazione del capoluogo d’Abruzzo e Pescara: da 6 giorni una rissa assurda, tutti in «L’Unità», rispettivamente 27, 29 e 30 giugno 1970. Sulla stessa linea è anche l’articolo in prima pagina di M. Ferrara, Le notti di Pescara, «L’Unità», 1 luglio 1970

[6] F. Roccella, dove e perché esplode la protesta di Pescara?, “Il Giorno”, 29 giugno 1970

[7] Il primo a mettere in relazione i due episodi è stato G. Crainz, La stagione dei movimenti: quando i conti non tornano, in Antipolitica, “Meridiana” n. 38/39, 2000. Una ricostruzione puntuale della rivolta di Reggio è in L. Ambrosi, La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009

[8] La preoccupazione per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti in Calabria si coglie con chiarezza nelle memorie di C. Petruccioli, L’Aquila 1971, cit. in particolare pp. 77 ss.

[9] Cfr. E. Gentile, Una manifestazione di dignitosa compattezza ha paralizzato completamente una città civile, «il Tempo», 26 gennaio 1971 e Idem, L’Aquila ha protestato contro l’indecisione di un consiglio regionale che sa solo rinviare, Ivi, 26 febbraio 1971

[10] I rappresentanti dei diversi partiti, scrive Petruccioli, «esibivano le loro divisioni, esaltavano le rispettive tifoserie, e concludevano: “A decidere dovranno essere i comunisti. Loro non si divideranno: sono un partito disciplinato. La loro scelta farà pendere il piatto della bilancia da una parte o dall’altra»: C. Petruccioli, L’Aquila 1971, cit., p. 37

[11] Uso l’espressione di V. De Fanis, Abruzzo/Abruzzi, cit., p. 119

[12] N. Felicetti, Un comunista riformista in Abruzzo, Ires Abruzzo, 2005, p. 74

[13] Per esempio Matteo Stocchi, segretario della Federazione de L’Aquila nel 1970, ha ricordato che c’era «in gran parte gente che conoscevamo; di non pochi sapevamo che votavano per il Pci. (...) Un giovane che riconobbi subito come iscritto alla sezione del Torrione, mi disse queste precise parole: “A Matté, tu lo sai che je ve voglio bé, ma ve ne dovete a jé da esso dentro; avemo abbruciate tutte le federaziò, e mo che je dico a chissu cò la tanica della benzina?». In C. Petruccioli, L’Aquila 1971, cit., p. 225. Anche la relazione della Commissione che il Comitato Regionale Abruzzese del PCI forma per indagare sulla vicenda annota che «i compagni erano disorientati da una folla composta di strati popolari e di elementi democratici»

[14] Relazione della Commissione incaricata dal Comitato Regionale Abruzzese del P.C.I. di riferire sui fatti accaduti all’Aquila il 27 febbraio 1971, p. 13

[15] Tutte queste citazioni sono tratte dai documenti in AFRA, Fondo Regionale, b. 26, 1971-1989, fascicolo Fatti dell’Aquila

[16] Per esempio Longo osservava che «c’è molta gente che è insofferente verso quelli che comandano, tra cui mette anche noi», mentre Pajetta aggiungeva che «si crede che basti mettersi d’accordo con i Dc e il Psi per risolvere tutto». Entrambi gli interventi sono nella Direzione del primo marzo 1971 e sono citate in G. Crainz, La “stagione dei movimenti”..., cit., p. 146

Ma ho intenzione di farmi raccontare meglio la storia da chi c'era in quel febbraio del'71, così vado a L'Aquila per incontrare il prossimo testimone: Mario Basile

Mario Basile, classe 1949 è stato sindaco di Castel del Monte, piccolo borgo dell'entroterra aquilano e suo paese di origine. Ci incontriamo lungo via Paganica, dove sorgeva la sede aquilana del PCI.

Mario mi racconta che nel '71 era un ragazzo e, con la famiglia, abitava poco distante dalla sede del PCI. Quindi notò subito quello che stava accadendo, l'alta colonna di fumo dell'incendio appiccato e il trambusto generale, la violenza con la quale esplose la rabbia dei facinorosi - come li chiama lui.

Assistere a quelle scene e vedere lo scempio all'interno della sede messa letteralmente a soqquadro fa nascere in lui il desiderio di partecipare attivamente alla vita politica .

Torno a chiedergli di quel giorno di febbraio, le sue impressioni sull'operato del partito.

Nel 1975 Mario viene eletto consigliere comunale a Castel Del Monte, tra le fila del PCI: mi spiega come il partito ritenesse importante che gli amministratori o comunque gli eletti in varie cariche fossero costantemente formati.

Ma, nel 1972, appena dopo un anno dai famosi fatti dell'Aquila, Enrico Berlinguer giunge in città, nella duplice veste di Segretario nazionale del partito e di capolista per la regione Abruzzo.

Il comizio si tiene in centro, nella famosa piazza Duomo, davanti a una folla di persone, accorse un po' da tutto l'Abruzzo, nonostante poco più di un anno prima la città (e la sede del partito comunista) furono messi a ferro e fuoco.

Mario ricorda ancora oggi, con emozione, quel giorno. Il discorso di Berlinguer, l'incitamento della folla e gli applausi, la gioia che il Segretario diede loro nell'andare a mangiare tutti insieme alla Mensa del popolo.

Ringrazio Mario per la sua collaborazione, ma resto un altro po' a L'Aquila e ne approfitto per incontrare un altro testimone di quegli anni: Giovanni Lolli.

Lolli, in passato deputato alla Camera e vicepresidente della regione Abruzzo, inizia la sua militanza politica da giovane, all'indomani dei moti dell'Aquila.

Lolli e i nuovi tesserati, insieme alla "vecchia guardia" con a capo Alvaro Iovannitti, aprirono un nuovo corso del partito, organizzando dibattiti aperti al pubblico specie ai più giovani: le operaie e gli operai della ITALTEL, da poco insediatasi in città.

Inoltre, per la città inizia, contestualmente, un periodo molto fiorente, anche dal punto di vista culturale.

In appena un anno, insomma, si risana la frattura nata dopo gli episodi del 1971 e la cittadinanza, gli operai specialmente, sentono più vicini il Partito e i loro esponenti.

Ringrazio anche Giovanni Lolli per il prezioso contributo e mi incammino verso l'auto. Lascio L'Aquila con le idee un po' più chiare: sono meno titubante e sempre più curioso. Nei prossimi giorni mi aspettano altre persone e altre testimonianze, in questo lungo viaggio alla scoperta dell'Abruzzo e di Enrico Berlinguer.